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giovedì 23 giugno 2011

La carestia delle parole

Felice Cimatti – Naturalmente comunisti – Bruno Mondadori

Il libro è difficile, ve lo dico subito. La densità filosofica dei primi capitoli potrebbe anche scoraggiare il bagnante estivo.

Quel che non si fatica a capire è con chi ce l’ ha:

… gli economisti, oltre ad essere in malafede… sono completamente infettati dal capitale, che letteralmente parla attraverso i loro corpi…

Devo ammettere che fa una certa impressione discorrere con chi ti ritiene “persona infetta” e in malafede.

Chissà se esiste una tecnica particolare per intervistare i pupazzi che hanno il “capitale” come ventriloquo. Anche le “infezioni” richiederanno distanze minime. Sicuramente c’ è una contromisura per tutto, anche se la malafede cronica potrebbe dare qualche grattacapo.

L’ aggressività di Cimatti ha comunque l’ effetto di trasformare in urgenza la lettura del suo libro, qualcuno potrebbe pensare ad un’ oliata tecnica di marketing.

Fortunatamente è altrettanto chiaro sulle tesi propugnate:

… la vita vissuto sotto il sistema economico che chiamiamo capitalismo è innaturale… la vita naturale… è quella che il filosofo Karl Marx chiamava comunismo…

Per il conduttore di fahrenheit, tanto per cominciare, il capitalismo non è solo alienante – questo lo dice anche il Papa, che non si sente un comunista naturale – ma è necessariamente alienante.

L’ uomo, ipnotizzato e reso passivo dallo spettacolo della “merce”, entra totalmente al suo servizio. Non servono moniti per far cessare l’ inganno, qualcuno deve semplicemente spegnere la lanterna magica e farla finita. Solo così intaccheremo la fede più retriva che esista: quella nel denaro.

In secondo luogo, nella società capitalista far soldi diventa che lo si voglia o no un pensiero fisso, cosicché il sistema sviluppa presto una sua impermeabilità a qualsiasi etica.

[… anche all’ etica borghese?…]

Sono affermazioni forti, ma per fortuna testabili: misuriamo se le cose stanno davvero così! Benjamin Friedman, che c’ ha provato, è giunto a conclusioni opposte: la ricchezza innalza lo standard etico e la consapevolezza del soggetto.

Ma Cimatti, almeno inizialmente, le dà per scontate. E’ più interessato a ricostruire le ragioni di un simile sfacelo.

E le ragioni sarebbero biologiche.

Anche per questo, parlando con Vlad, mi ero illuso che considerazioni fatte altrove tornassero buone in questa sede.

Senonché, siamo o non siamo in Europa? E allora rassegniamoci, le cose sono molto più complicate:

… la natura umana è qualcosa di troppo importante per lasciarla solo agli scienziati…

Coerentemente con questa affermazione, passando alla sostanza, la biologia si defila e cede il passo alla filosofia; è lei che dovrà fare sintesi e vedersela con i maledetti economisti!

Anzi, l’ approccio sociobiologico standard diventa presto un nemico da rintuzzare. Wilson e Pinker sono considerati, ma per essere di continuo riveduti e corretti in chiave filosofica.

Cosicché, la natura umana non puo’ essere circoscritta da alcuni istinti tipici, al contrario:

… la natura umana sta nella capacità dell’ uomo di pensare il possibile

Qui la curiosità aumenta, perché se c’ è un sistema che privilegia la speranza – anche sulla felicità – questo è il sistema capitalistico.

Al punto che in passato è finito ripetutamente sotto accusa per i processi di distruzione creativa che innesca, per i stressanti cambiamenti continui che fomenta. Ma in questa requisitoria, sembrerebbe sia chiamato sul banco degli imputati per la palude stagnante e senza prospettive in cui ci costringe a vivere.

Tuttavia, a ben pensarci, forse il comunismo gode in effetti di un privilegio: quello di essere praticamente impossibile da realizzare, e quindi sempre pensabile come possibile in ogni situazione concreta.

Non avete l’ impressione di un leggero capogiro?

Tra le tante che mi lasciano dubbioso, cerco ora rapidamente di venire ad un paio di questioni nevralgiche. La prima è ben colta da chi si pone a questo incrocio.

Sono gli uomini che danno vita a relazioni o è la relazione che dà vita agli uomini?

Sono le parti che fanno il contratto o è il contratto che fa le parti?

Cimatti, sotto l’ egida di Durkheim, rifiuta l’ individualismo metodologico e prende la seconda via.

Io, con Weber, la psicologia evoluzionista, quasi tutte le scienze sociali contemporane e il buon senso, sarei più propenso a prendere la prima. Tuttavia, di fronte a palesi inconvenienti, non mi farei problemi a saltare il fosso.

Ma dove sono i palesi inconvenienti? Li vedo semmai sulla sponda opposta, là dove mi si chiede di approdare.

Ricordo, tanti anni fa, un bel dibattito su questo punto; allora Cimatti avrebbe avuto come formidabile alleato il guru della nuova destra Alain De Benoist. Un caso? Non penso, di sicuro un inconveniente!

[Parentesi: anche l’ antropologia cristiana ondeggia pericolosamente su questo crinale quando comincia a discettare in modo ambiguo sulla distinzione tra individuo e persona. Poi, fortunatamente, ciascuno riconosce che nel giorno del Giudizio staremo a quattr’ occhi di fronte al buon Dio, e così la concezione individualista s’ impone per forza di cose…]

La relazione, il contratto… tutta roba che per essere realizzata ha bisogno di una lingua, ovvero di un bene che noi riceviamo dall’ ambiente. Su questo aspetto il capitalismo, secondo Cimatti, sarebbe cieco:

… la lingua come prodotto di un singolo individuo è un assurdo… ma altrettanto lo è la proprietà privata delle altre risorse (pubbliche)…

Detta così sembrerebbe che Tremonti voglia privatizzare gli aggettivi. Il che effettivamente sarebbe assurdo.

C’ è una bella differenza tra la parola “bicicletta” e la mia bicicletta.

La mia bicicletta è una e, se permetti, la uso io. Visto che se la uso io non la usi tu (e viceversa), urge una regola.

La parola possono usarla tutti, persino in un regime capitalista. Possiamo usarla anche tutti insieme contemporaneamente. Qui non serve una regola che governi le precedenze.

Se alla ruota della fortuna qualche “speculatore” compra una vocale, nessuno si preoccupa della possibile incetta. Ciascuno di noi ha con sé tutte le vocali che gli servono. Non serve un referendum per stabilire che le parole siano gratuite. Il capitalismo è un metodo per affrontare la scarsità, parlando della lingua siamo fuori dal dominio che si pone.

Un altro passaggio stimolante:

… io esisto semplicemente perché, prima di me e senza alcun mio merito, una precedente comunità mi ha fornito i mezzi materiali e linguistici per diventare umano…

Prima osservazione: di sicuro il Cioran che sta leggendo Diana trasformerebbe quel “senza alcun mio merito” in un “senza alcuna mia colpa”!

Ma a parte le considerazioni parossistiche, bisogna riconoscere che l’ ambiente in cui abbiamo vissuto condiziona la nostra personalità.

L’ ambiente ci condiziona per il fatto stesso di esistere, l’ isolamento, in questo senso, è pensabile solo a livello metafisico.

SOBIL

Ma questo comporta forse degli obblighi da parte di qualcuno?

Affinché nasca l’ obbligo, la questione del merito è centrale. A chi va attribuito il merito che io non ho?

Merito e colpa richiedono l’ esistenza di un’ intenzione. Ma il processo evolutivo è cieco, non esiste intenzione, solo fortuna, quindi per i frutti che produce non esistono meriti da premiare né colpe da punire.

Certo, il figlio è riconoscente verso i genitori. Il credente ringrazia Dio. Ma lì è presente un’ intenzione, una provvidenza; invece, dal puro e semplice condizionamento, come potrebbe mai nascere un obbligo giustificabile con la premiazione di un merito?

Comunque sento che presto parleremo di atomismo sociale, speriamo che lo si faccia con le dovute avvertenze.

***

Per ora mi fermo qui. Sebbene gli argomenti non sfavillano quanto le tesi (che grazie alla loro radicalità s’ impongono meglio all’ attenzione), la lettura è stata una buona occasione per ripassare Wilson, Pinker, Chomsky; per rispolverare Hobbes e Durkheim, per riesumare il cadavere di Marx, e anche per scoprire un autore a me sconosciuto: Gehlen.

Sono a metà del quarto capitolo e il libro, perorando un generico comunitarismo, avrebbe potuto intitolarsi anche “Naturalmente fascisti”, ma il quinto e ultimo capitolo (“Comunismo”) forse ha qualcosa da dire in merito. 

***

A conclusione lasciatemi fare una piccola postilla e poi non vi annoio più.

Altrove ci chiedevamo “perché gli intellettuali stanno a sinistra?”; forse perché cause improbabili richiedono argomenti contorti che, se visti sotto una certa luce, sono a loro modo sofisticati.

Chiudendo il libro sento che questa ipotesi viene in qualche modo corroborata.

Eppure nel caso di specie esistono argomenti semplici che scuotono in modo più efficace le mie certezze di apologeta del capitalismo pronto alla conversione.

Eccone uno: l’ uomo (più che egoista, razionale, aperto al possibile…) è fondamentalmente invidioso. Già oggi molti fenomeni riscontrabili nell’ economia di mercato sono spiegati al meglio valorizzando il ruolo dell’ invidia. Perché il neo-comunismo punta così poco sul sentimento verde?

giovedì 9 giugno 2011

L’ appropriazione indebita

Non ho mai ucciso un comunista. L’ anticomunismo, sbollita la rabbia giovanile, l’ ho trovato una pratica assurda: uno stratagemma per tenerci occupati e confondere quelli che devono essere i veri obiettivi

Pierluigi Concutelli – Io, l’ uomo nero.

Secondo Orsini il brigatista è un tipo antropologico particolare: non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, affetti di un qualche tipo.

Non li ha e non deve averli. Se qualcosa resta deve liberarsene. E’ un uomo sradicato, alienato (e rinato solo grazie all’ ideologia).

Il terrorista deve essere solo. In questo senso vive un suo celibato. Il terrorista è coerente. In questo senso fa sempre cio’ che dice.

E’ o deve diventare privo di ogni egoismo, sempre pronto come un automa a gettare il cuore oltre l’ ostacolo sacrificandosi per gli altri.

Buzzfeed aiutiamo il giappone

Una condizione sacerdotale, la sua.

L’ ideologia della Chiesa (riveduta e corretta) sembra essere una fonte d’ ispirazione inesauribile: il capitalismo esalta la ricchezza, la Chiesa premia la povertà. La Chiesa predica poi la comunione dei beni e si offre spesso quale baluardo alla modernità.

Ma questo è proprio il ruolo che il brigatista rivendica a sé. Non a caso ama ritrarsi come un cristiano delle catacombe.

Il brigatista è pronto a fiancheggiare la Chiesa più retriva, come le rivolte afghane; sostiene la ribellione irachena come il terrorismo islamico. Anche la Tav in Val di Susa gli va bene. Tutto pur di colpire il suo nemico: la civiltà moderna.

Curcio leggeva Camus e parlava spesso del fatto di non aver avuto un padre. Più volte ebbe a dire seriamente “Dio è mio padre”.

Ecco, se c’ è un prototipo dell’ alienato questi è Curcio.

Nasce a Monterotondo da Jolanda Curcio (18 anni), il papà, Renato Zampa, lo conobbe a 12 anni. Jolanda lo affida alla famiglia Paschetto di Torre Pellice (alta montagna piemontese). A 10 anni finisce nel collegio dei preti Don Bosco di Centocelle. Si chiude in “una sfera di silenzio e rifiuto autistico”. Non parla, non studia. Incontra solo l’ ultimo parente che gli è rimato: Luigi Zampa, uno zio. Bocciato viene trasferito ad Imperia presso un’ altra famiglia. Bocciato di nuovo, solo la minaccia dell’ istituto di correzione lo spinge a studiare il minimo indispensabile per il diploma, che consegue dopo una fuga a Milano dove trova lavoro come ascensorista all’ Hotel Cavalieri. Con il diploma in tasca viene assunto alla Pirelli, una vita insostenibile per un ribelle del genere. Nel corso di una domenica qualunque chiede un passaggio non sa neanche lui per dove. Finisce a Genova, dove vive da barbone, scivola nell’ alcolismo e assume metadrina. Capisce che la sua esperienza è senza ritorno, scappa a Trento dove ha sentito dire che inaugurano una nuova facoltà di sociologia. Frequenta i corsi fondando una comune in una casa semi crollante sulle rive dell’ Adige. Di politica non sa ancora nulla, sa solo che odia profondamente questo mondo e vorrebbe distruggerlo. Il marxismo leninismo fornirà gli strumenti e le soddisfazioni surrogatorie del caso.

Il brigatista si ritiene un Messia chiamato ad “accelerare la Storia”, uno che “uccide per amore”.

Il riformista è per lui “un sadico che non si decide a staccare la spina”.

Biagi, D’ Antona avevano cercato di riformare il mercato del lavoro e devono pagare poiché le riforme con un qualche successo riducono l’ odio contro il capitalismo. Lenci fu condannato a morte da Prima Linea per i suoi progetti architettonici rivolti a migliorare la vita dei detenuti. Viscardi, direttore del carcere di Bergamo, fu eliminato per aver creato un clima ben accetto ai reclusi.

Tutto quel che Orsini sottolinea per molti ha un difetto terribile: vale anche per i terroristi neri. 

 

L’ autore lo sa e a loro dedica l’ appendice, sfilano le figure di Pierluigi Concutelli, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Franco Freda, Alessandro Aliprandi, Roberto Nistri.

Nulla sembra distinguerli dai “rossi”. Concutelli non fu meno rivoluzionario di Curcio o di Moretti. La vocazione lo spinse a combattere persino in Angola.

[… in questo senso il marxismo si rese colpevole di appropriazione indebita allorché tentò di avocare a sé la Rivoluzione. Nel libro è Moravia a difendere in modo che oggi suona patetico questa “esclusiva”…]

Non solo, anche il nemico era comune: il mercante e tutti coloro che coltivano il proprio “particulare”. Con loro intendevano colpire l’ individualismo, il profitto, la ricchezza, la concorrenza, la desacralizzazione del sacro, la libertà d’ espressione, l’ egoismo, la mancanza di solidarietà e il mondo borghese in genere.

Quanto alla costruzione da erigere domani, al di là di qualche accenno all’ Uomo Nuovo, non era certo al centro della loro attenzione.

Quanti documenti lasciarono i brigatisti sulla società che avrebbero voluto costruire? Orsini, uno dei pochi ad averli letti tutti risponde: nessuno.

I rivoluzionari per vocazione sono in realtà dei reazionari impenitenti, uomini offesi ed indignati da tutto cio’ che la modernità occidentale rappresenta.

sabato 25 settembre 2010

Stragi record

Quali sono i peggiori stragisti del secolo passato?

1) Mao

2) Stalin (Lenin)

3) Hitler

4) Pol Pot

Una domanda s' impone: la cultura diffusa dalle teste d' uovo d' occidente ha saputo far passare questo messaggio? A voi la risposta.

Se poi consideriamo che il mass murder più grave del genocidio...

mercoledì 18 agosto 2010

La verità del reale

Se volete capire come passa la giornata in un Gulag per indignarvi con più veemenza, allora non vi aiuterà molto leggere i "Racconti della Kolyma", uno dei migliori libri scritti sui Gulag siberiani.

Qui troverete solo un vero scrittore che narra veri racconti. Qui troverete alta letteratura.

Il gulag è lontano, almeno quanto lo è la Rivoluzione industriale in Dickens.

In un certo senso l' arte sopraffina di Varlam Salamov penalizza il suo ruolo di testimone. La scrittura fabulistica ci avvince alle storie facendoci dimenticare il posto terribile dove siamo capitati.

Quando accenno alla "fabula" non penso tanto all' incanto di un sogno ad occhi aperti, quanto all' esilio claustrofobico in un' altra dimensione.

Il "reale" sembra essere l' unica via per cogliere il "terribile", ma Salamov sceglie una via alternativa.

I prigionieri, dimentichi e quindi esiliati dal loro passato e dal loro triste destino, sono assorbiti unicamente dalla loro irrilevante lotta quotidiana per giungere a fine giornata, domani si vedrà.

Quando non ha senso formulare un progetto che vada al di là di due giorni, come puo' avere senso... la "dimensione storica" della vicenda?

Il gulag, Stalin, la Siberia, l' Unione Sovietica sono concetti che fuggono per svanire nel nulla, dapprima fuggono dalla testa dei prigionieri, subito dopo dalla pagina dell' autore, e presto anche dalla testa del lettore.

Eccoci in esilio da ogni dimensione storica, eccoci in grado di cogliere la minuscola prigione in cui lo spirito umano viene rinchiuso quando il corpo è rinchiuso nell' enorme carcere siberiano.

In un luogo tanto mostruoso la cosa facile sarebbe quella di indugiare su sentimenti mostruosi, ma i sentimenti descritti da Salamov li abbiamo su per giù provati anche noi sui banchi di scuola o nei luoghi di lavoro.

Perchè l' uomo dia il peggio di sè non sembra necessario che pesi 35 kg e attenda alle sue 20 ore di lavoro giornaliere a meno 50 gradi.

Pesare un terzo del proprio peso forma quando fuori ci sono 50 gradi sotto zero significa stare all' inferno. Cos' ha allora di caratteristico l' Inferno?

Una cosa negativa: predomina il sentimento dell' odio. Ma per fortuna l' odio è solo un sentimento, e allora soccorre la seconda caratteristica, forse positiva: il sentimento non puo' essere coltivato, nemmeno provato a lungo, emerge brevemente per poi scomparire. La vendetta è intorpidita fino ad essere abortita. I pallidi colori pastello dell' invidia ne fanno un fantasma incosistente.

Ciascun racconto occupa poche pagine, è un piccolo ed effimero francobollo.

Si conclude sempre in modo compassato consegnando al silenzio l' essenziale.

Il "terribile" è scontato e mai menzionato, solo l' epifenomeno desta interesse, solo la nota a margine ci parla con tono di verità.

Levi e Trouffaut l' hanno insegnato: svelare un trucco è oggi cento volte più appassionante che narreare le gesta eroiche del santo o quelle blasfeme del diavolo.

Salamov esegue e supera i maestri.

Forse ora anche noi suoi fedeli lettori sedotti per sempre saremmo capaci di sbarcare il lunario in un Lager.

Chissà se Salamov voleva essere cio' che è stato per me. In fondo lui andava predicando che la verità del reale è di un genere tutto particolare.

Secondo lui, fino al secolo scorso, lo scrittore non doveva conoscere troppo bene il suo soggetto: in quel caso avrebbe tradito il lettore in favore di quest' ultimo.

Ma i tempi andavano cambiando, diceva, e lo scrittore doveva divenire uno "specialista", doveva conoscere da dentro cio' di cui parlava. E lui, non per niente, aveva una conoscenza di prima mano del gulag.

Tuttavia, nonostante queste intenzioni, la verità di Salamov anzichè avere l' odore della realtà conserva l' odore della letteratura. Dell' alta letteratura.

sabato 14 agosto 2010

Il maestro di Stalin

L' ex comunista nostrano che non ha fatto i conti con la sua storia lo riconosci subito: anzichè parlare di "comunismo" parla di... "stalinismo".

Come se un fascista parlasse di "mussolinismo".

A Radio Tre l' uso del termine autoassolutorio va per la maggiore. Quando si enumerano con ribrezzo i totalitarismi del novecento, s' intona sempre la solita filastrocca: Fascismo, Nazismo e... (pausa incerta e abbassamento del tono)... Stalinismo.

Ma lo vuoi capire, caro conduttore di Radio Tre, che lo Stalinismo sta al Comunismo come l' Hitlerismo sta al Nazismo?

Io te lo posso spiegare al bar e mentre te lo spiego mi confondo pure e faccio errori, tu hai la lingua sciolta e ridacchi, sei più che autorizzato a non prendermi sul serio.

Fattelo spiegare allora da Sergej Petrovic Mel' gunov, fatti spiegare che nessuno più di Lenin fu maestro a Stalin, fatti spiegare per filo e per segno quando iniziò "il regno delle tenebre".

E dopo le spiegazioni spero che ti deciderai - non dico a fare i conti con il passato, quelli sono affari tuoi - ma perlomeno a cambiare l' oscena filastrocca che reciti ancora oggi - 2010 - dai pubblici microfoni: non Stalinismo ma Comunismo, please!

sabato 27 marzo 2010

SS: lo Smoccolatore Supremo

Per fortuna viviamo in società che ha ancora un' idea del Male e che non consente di smoccolare impuniti la candela della vita umana.

Ma sfortunatamente l' idea predominante del Male che ci attraversa potrebbe presentare qualche deformità.

Per chi vive guardando la televisione che guardo io il culmine del crimine si chiama "genocidio". La parola va pronunciata lentamente e guardando in camera.

La Storia del Novecento pesa e il genocidio rappresenta nel nostro immaginario il Male supremo.

Ma, mi chiedo, perchè non far interagire il nostro immaginario con la nostra ragione? D' altronde il genocidio non monopolizza certo quell' incontestabile levatrice che è la Storia, anzi.

Non nego che far fuori un milione di persone a causa dell' etnia a cui appartengono sia probabilmente più crudele che ammazzarle per l' idea che professano. L' idea in fondo si puo' cambiare.

Ma questo è vero a priori. A posteriori, appena prima di compiere l' assassinio ideologico, sai ormai con certezza che la vittima non tradità mai la sua fede.

In genere si rende il concetto dicendo che, a posteriori, "i morti sono morti".

I morti sì, ma il dolore che si è creato e sparso nel mondo? Anche quello è uguale?

Forse per un utilitarista no, per lui uccidere 1 persona e ucciderne 1.000.000 non è esattamente la medesima cosa e seguendo la stessa logica arriva a dire che il dolore complessivo per le stragi non puo' essere sempre lo stesso.

Sono uscito a prendere il pane e rientrando mi sono imbattuto in un funerale con parenti affranti intorno alla bara. Se mi ricordo dell' evento anche dopo dieci minuti è solo perchè sto scrivendo ora sul "dolore", in caso contrario mi sarei dimenticato di questo insignificante - per me - episodio. Purtroppo a quella persona posso dedicare solo un pensiero fuggitivo.

Le connessioni affettive che crea l' etnia fanno preferire il "genocidio" all' "omicidio di massa": 5.000.000 di vittime scelte a caso portano al mondo più dolore rispetto ad un genocidio che spazzi via 5.000.000 di uomini: nel secondo caso periscono anche parecchie persone che sarebbero destinate a soffrire per tutta la vita.

Eppure nella nostra società questa considerazione sembra negata. Perchè?

Non tutti saranno d' accordo, eppure, chi vede nel genocidio il più alto dei crimini è spesso la persona con le carte in regola per accettare il ragionamento di cui sopra, è la persona più disponibile ad accettare che sparisca chi è destinato a soffrire tutta la vita.

Ma è una questione di "culture" che si estinguono, qualcuno opina.

Se l' omicida di massa selezionasse in base alle idee o alla classe sociale (Stalin), anche lì assisteremmo ad un' estinzione culturale.

Ma oggi - 2010 - una "cultura" particolare, vale al punto da compensare il dolore in eccedenza della selezione random?

I "finnici", come etnia, sono spariti da poco e nessuno se n' è accorto.

Un mondo libero è un mondo aperto, alcuni sostengono che in un mondo del genere le "culture" proliferano (e allora la singola cultura ha poco peso), altri che convergono (e allora si tratta di uccidere un cadavere).

Resta dunque inevaso l' interrogativo: perchè il male supremo resta per noi il Genocidio?

Bisogna rispondere alla svelta e in modo puntuale, prima che si presentino alternative impresentabili come l' Irrazionalità generalizzata o la Propaganda.



link

lunedì 30 giugno 2008

E' qui la festa

L' Italia non sembra unita come si deve. Ognuno va per la sua strada. Non si riesce nemmeno più a divertirsi quando festeggia. Non ci si riesce e finisce sempre a bicchierate in testa.

Altrove trovavo tutto cio' giustificato dalla Storia.

Anche la cronaca avanza le sue buone ragioni: per esempio queste.

Le magagne sono tornate fuori in occasione del 25 aprile. La cosa si ripete ma qualcuno, non volendo capire, fatica a farlo.

Si, lo so, c' è stata la guerra civile. Se è per questo ce ne sono state due (vedi link). Sì lo so, qualcuno ha perso e questo "qualcuno" erano i fascisti.

Ai "vincenti" piace essere accusati di un eccesso di zelo: il loro odio contro il nemico sarebbe ancora assurdamente in pista e fuori dalla storia. In parte puo' essere anche vero. Ma un' accusa del genere, poichè non regge, piace tanto sentirsela addosso, farla montare. E poi, con uno spillo, sgonfiarla.

E' il modo più consueto con cui il "festaiolo" si para le spalle.

Se le cose stessero davvero così, sarebbe facile per loro mostrare grande pietà ed apertura rendendo vana ogni discussione. E poi giù a puntualizzare l' ovvio: ovvero che una parte era nel giusto e l' altra no.

Dopo discussioni del genere sembra quasi che essere "antifascisti" equivalga ad essere contrari ai regimi fascisti. Io mi ritengo contrario ad ogni forma di fascistizzazione e sindacalizzazione della società, eppure non mi definirei mai "antifascista". Non ho le carte in regola. E come me molti che osteggiarono nei fatti il fascismo.

La categoria concettuale, è storia, fu introdotta per fornire usbergo alle forze comuniste e vestirle con un abito presentabile nel consorzio civile.

Poichè queste forze combatterono la loro resistenza con l' unico e chiaro intento di instaurare una dittatura, sembra abbastanza logico l' imbarazzo che ci accompagna quando ti tocca festeggiare stando gomito a gomito con chi viene da quella tradizione. A nulla vale se, dopo stretto consulto con il compagno Stalin, per motivi meramente strategici e opportunistici, si decise di procastinare la rivoluzione a tempo indeterminato. E a nulla vale che i compagni meritino una medaglia per aver combattuto il regime (alla stessa stregua, merito del fascio fu di aver combattuto i rossi riducendone la minaccia)! A poco vale opinare che la dittatura in gestazione sarebbe stata "diversa" rispetto alle altre 867 dittature nate nel mondo con i medesimi intenti e presupposti, poi tutte fallite tutte 867 disumanamente, in accordo con i detti presupposti...

Oppure le intenzioni con cui si combattè la Resistenza non contano?

Contano o no?

Bè, se le intenzioni hanno smesso di contare, con quale spirito robotico dovremmo intonare gl' inni di quella gloriosa battaglia?

Lasciamo allora perdere gli inquinamenti del 25 aprile, non c' è solvente che tenga; lasciamo al suo destino il 2 giugno, lasciamo ad una dolce ed armoniosa deriva l' Unità e tutti i Bandieroni in cui si avvolge. Mi sa che se veramente vogliamo brindare in concordia e fratellanza dobbiamo risalire ad epoche in cui le nostre città erano l' ombelico del mondo. Abbiamo la fortuna di averle nella nostra storia, perchè dimenticarsene?


P.S. avevo completamente dimenticato queste quattro righe buttate giù mesi fa nei pressi della ricorrenza. Ma poi qualcuno me le ha fatte tornare in mente.

venerdì 20 giugno 2008

Sanare le zoppie

Chissà un fresco maturando che esce dalla scuola italiana che punteggio riporterebbe in un test di questo tipo. Oltre a testare lui si testerebbero anche le affermazioni di chi ritiene che certe impostazioni asimmetriche siano solo roba vecchia che ammorbava la scuola di un secolo fa. Da ultimo, m' incuriosirebbe proprio somministrare il tutto a chi queste affermazioni le ha in bocca tutti i giorni. Lo score sarebbe decisivo per dare a costoro seria udienza.

lunedì 25 febbraio 2008

Affrontare l' unico argomento in mano ai filo-castristi

Comparare Cuba con gli altri disastri caraibici è forse l' unico reale argomento in mano ai filo-castristi di casa nostra. Anche per questo giungono gradite le puntualizzazioni di DeLong. Affrontato e risolto (in termini logici) anche l' assurdo argomento dell' embargo.

add1: Cowen s' impegna nel confronto Cuba-Messico del nord.

martedì 8 gennaio 2008

Maurizio Ferraris alle prese con gli spettri

Nell' ultimo supplemento domenicale del Sole 24 Ore, a pagina 5, Maurizio Ferraris è intento a recensire la "bellissima" antologia di scritti marxiani curata da Enrico Donaggio e Peter Kammerer per Feltrinelli: "Capitalismo. Istruzioni per l' uso."



Per quanto la Storia, di solito così sfumata, complessa e priva di verdetti, si sia incaricata per l' occasione di farci chiaramente comprendere quanto il Profeta di Treviri, del capitalismo non avesse capito granchè. Per quanto il Nostro sia quasi unanimemente considerato "un mediocre e tardivo economista enormemente influente - scopriamo invece che per penetrare a fondo nella trama di base del fenomeno capitalista, il suo insegnamento sia imprescindibile.



Desta qualche sospetto che a dircelo in questa nota critica sul giornale di Confindustria sia uno dei pochi filosofi in circolazione che ancora cerchi di mettere in piedi una qualche raffazzonata difesa di intellettuali pasticcioni, contraddittori e dannosi, come puo' ormai essere considerato il post-modernista Derrida. Noto ai più per l' uso di venticinque parole quando ne necessita una.



[...a proposito, anche il francese, come accade sempre nelle uscite pubbliche di Ferraris, viene citato con un riferimento al "bellissimo" (ancora?) "Spettri di Marx"...]



Desta qualche sospetto che a dircelo sia uno che considera il "plusvalore" come cio' che consente a colui che apre un call center di avere maggiori opportunità di guadagno rispetto a chi ci lavora.



Ma che diavolo di nozione è mai questa? E io che mi credevo che il plusvalore servisse a dimostrare la natura parassitaria, e quindi superflua, di ogni attività puramente imprenditoriale, ovvero speculativa!



Ma probabilmente, passando attraverso la cosmesi post strutturalista di Ferraris, nonchè del padre putativo Derrida, il concetto è radicalmente mutato secondo il comando che presiede al lavoro di quelle officine: trasformare l' errore in oscurità.



I concetti imperscrutabili si riabilitano molto più semplicemente rispetto a quelli chiaramente erronei.



Si prosegue poi con pari rigore nel denunciare senza infingimenti quel "sortilegio per cui si confonde il valore d' uso con il valore di scambio".



Sortilegio? Mi pare che l' economia moderna e il soggettivismo che reca con sè, si fondi sopratutto su una simile distinzione ripetuta di continuo in modo forte, chiaro e inequivocabile! Altro che "...sortilegio che porta a confondere...". Probabilmente Ferraris è arrivato nel terzo millennio girandosi dall' altra parte.



Ma il nostro filosofo non si ferma, sente impellente l' esigenza di altri buchi nell' acqua.



Secondo Ferraris, Marx, analista oggettivo e senza illusioni, ha denunciato fino in fondo le contraddizioni del capitalismo proponendo una via alternativa.

A questo punto uno si crede che la Via Alternativa alle contraddizioni tenda alla coerenza.



A giudicare da come è miseramente collassata nel corso di verifiche secolari, sembrerebbe proprio di no.



Naturalmente Ferraris si guarda bene dal dire che, rispetto ai progetti marxisti, qualcuno ha fatto leggermente meglio.



Nooooo, al socialismo reale non ha certo nuociuto il confronto con i sistemi liberali, è stata la Chiesa Cattolica, in quanto (brutta imbrogliona) "portatrice di speranza non soggette a verifica", ad avere inferto il colpo di grazia.



Naturalmente questo discorso starebbe in piedi con le grucce qualora oggi l' Occidente fosse in una condizione simile se non uguale a quella dei socialismi reali (URSS ieri, Cuba e Corea oggi...).



Ferraris non osa dirlo, forse un po' si vergogna, ma lo postula subdolamente. Secondo lui oggi siamo tutti "...vittime delle nostre illusioni...". Visto che un' illusione infranta vale l' altra, visto che i gulag assomigliano molto ai libri in tribunale della ferramenta di papà, direi che l' assunto puo' ritenersi dimostrato.



Senza contare che, a questo punto, qualcosina la si potrebbe pur dire sul filo che lega Chiesa Cattolica e libertà individuali. ma quando mai? Tutto deve apparire come un gioco fortuito del caso dispettoso.



E non è finita. Il Ferraris sempra impazzire per una dritta marxiana.


Un insegnamento che a lui appare centrale ed ineludibile, in grado di spiegarci la modernità come mai nessun altro: Marx insegnerebbe la "...contrapposizione tra la testa, che crede di fare...e le mani, che effettivamente fanno. La testa crede di fare una cosa, ma la mano ne fa un' altra...".
Devo ammettere che, da cattivo costruttore, avevo scartato questra pietra angolare dell' opera marxiana.



Adesso che ci penso...ma chi glielo dice al Ferraris che un concetto come quello delle "conseguenze non-intenzionali" guida e giustifica tutta l' ideologia iper-liberista (lui userebbe questa etichetta) dagli anni trenta del secolo scorso ad oggi?

Sintomatica la chiusa con cui Ferraris si mette a parlare con urgenza di Mele, Cesa e Berlusconi, facendo capire che ce li aveva in testa fin dall' inizio e non vedeva l' ora di arrivare a citarli.

[...ma il fantasma di Berlusconi quante vecchiaie più o meno illustri ha rovinato?...]

Prima di girare finalmente pagina un ultimo pensiero mi sorprende: ma non è che in tutta questa storia del declino c' entra qualcosina anche la nostra classe intellettuale?

lunedì 31 dicembre 2007

La Rivoluzione d' Ottobre diventa la Rivoluzione di Febbraio

Mussolini fu chiaro: "...il bolscevismo è un fascismo migliorabile...".

Quel che di buono vi era nel sentimento anti-zarista si manifestò ingenuamente nel Febbraio. Ad Ottobre ebbe luogo solo una cinica presa del potere.

Negli scritti qui commentati viene smontato il mito di un Lenin da salvare a fronte di uno Stalin imperdonabile.