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giovedì 12 ottobre 2017

13-14 Il mito della buona politica

Il mito della buona politica

No. Il cancro della povertà non si estirpa con la buona politica.
Le istituzioni non bastano, mi spiace.
Lo hanno creduto in molti studiosi di vaglia, Douglas North e Daron Acemoglu su tutti. Il mio rispetto è massimo ma nel loro resoconto qualcosa non quadra.
Il Medio Oriente – ma anche l’Oriente – tra il 1500 e il 1800 esprimeva società economicamente vitali, le (buone) istituzioni arrivavano ovunque, erano una panoplia estremamente curata. Come mai questa civiltà non si mise a capo nella marcia del mondo verso la ricchezza?
Gengis Khan ottenne la sua supremazia mongola attraverso un’applicazione rigorosa della “rule of law”. Implacabili sanzioni colpivano chi rubava una bestia, e gli animali erano il capitale di allora. Il risultato fu l’assai ammirata pax mongolica del XIII secolo. Pace e certezza del diritto assicurati per tutti. Ma come mai una simile pulizia istituzionale non partorì sviluppo e modernità? Come mai l’idea di “innovazione” sistematica non toccò mai queste linde lande?
I mercanti italiani dopo il 1300 continuarono a battere le rete viaria tra Ungheria e Corea elogiando la sicurezza e il controllo dell’autorità preposta alle comunicazioni.
Ma l’affermazione della legge si diffonde anche nelle società prive di autorità formale, nell’Islanda narrata dalle saghe, per esempio. Il motto dell’antica – e anarchica – Islanda: “solo la legge fa fiorire la vita dell’uomo”. Niente polizia in Islanda, ma una legge certa sì. Quando Gunnar Andersson uccise due membri della famiglia Giuriss, la famiglia fu autorizzata dalla legge ad ucciderlo e alla fine lo fece. Nessuno andò dalla polizia ma la legge parlava chiaro e fu applicata: la vendetta fu vista con favore da tutti. Il diritto trionfò.
I recenti esperimenti da laboratorio del premio Nobel Vernon Smith mostrano che la proprietà privata emerge dall’interazione spontanea anche in mancanza di un’autorità centrale. In compenso la storia ci dice come un’autorità centrale possa ostacolare la nascita del diritto di proprietà: la politica non è tutto, e a volte è molto meglio così.
Per sostenere l’ardita tesi per cui senza un re non c’è legge bisogna prelevare ad hoc campioni estremamente angusti della storia umana.
Le leggi nell’Inghilterra di fine Settecento dipendevano forse della politica? Uno studioso come Joel Mokyr ha dedicato buona parte dei suoi sforzi per negare con forza l’asserto! Non parliamo di uno studioso marginale e velleitario, parliamo di uno dei padri della storia economica contemporanea.
***
Soprattutto l’etica, non la politica, teneva insieme le società di allora.
Le regole del gioco non ci fanno giocare bene se noi non vogliamo giocare a quel gioco.
Le regole del gioco non ci fanno essere persone corrette se noi non le sentiamo corrette.
I codici legali dell’antica Mesopotamia, come per esempio il codice Hammurabi di Babilonia, non bastano a proiettare un popolo nella modernità.
Sostenere che la buona legge fa la buona società è come dire che l’incendio nel granaio è causato dal granaio. Magari il granaio lo attizza ma…
Purtroppo, l’economista ha una deformazione professionale, vuole spiegare la storia solo con gli incentivi, e quando non ci riesce non rinuncia, non molla la sua preda nemmeno di fronte all’evidenza. Nell’ economista manca la volontà di prendere l’etica sul serio: lo capisco, vorrebbe dire rinnegare interamente il suo paradigma di riferimento.
Che la corruzione sia illegale è una regola che vale a Stoccolma come a Dehli. Eppure…
La differenza la fa l’etica, inutile girarci attorno.
La cultura italiana per esempio è una cultura di norme ambigue. E’ spesso la cultura del furbetto che salta la coda.  Queste istituzioni informali contano più delle regole scritte.
La legislazione è un conto, la regola interiore un altro. Altrimenti, nel giro di una settimana trasformeremmo l’Africa in un’ immensa Svezia: basterebbe traslare laggiù le leggi di lassù.
Senza una comprensione adeguata della moralità e delle convenzioni sociali, lo storico non può nemmeno comprendere l’influenza reale delle istituzioni formali.
Con l’invenzione della stampa la regola può essere fissata una volta per tutte, ma questo non fa perdere in nulla l’importanza dei costumi.
La legge reale emerge da una dialettica tra l’ethos della popolazione e la legge formale. Qualcuno ha detto che la legge è una “conversazione”. Potremmo anche paragonarla ad una “danza”: una danza non può essere ridotta ad uno schema di passi.
Lo aveva capito Aristotele nell’ Etica Nicomachea, lo aveva capito l’autore dell’ Esodo e lo aveva capito anche l’autore della Mahabharata: la scelta di sottomettersi a una regola è un doloroso esercizio di identità. Non c’è una regola scritta e un soggetto che la osserva; c’è invece un soggetto in cerca della sua identità che si confronta con la regola scritta e delibera nel foro della sua coscienza.
Non c’è solo la l’autorità che verga un codice: c’è la dialettica, la conversazione, la storia, la vergogna, il senso del sacro… tante cose interagiscono. Cio’ che succede è la risultante di tutto questo. Se uno si limita al codice non capirà mai nulla di quello che accade.
***
A cosa si deve la resurrezione di San Francisco dopo il terrificante terremoto del 1906?
Non alla politica, la politica in quel frangente fu messa da parte. Un comitato di imprese e leader civici prese in mano la situazione. Grazie alla coscienza e all’opera di queste persone la città si riprese prontamente. La politica ha avuto un ruolo marginale.
Nel 2005 la storia si ripete a New Orleans con Walmart e Home-Depot che si sostituiscono alla politica.
A volte un economista come Oliver Williamson fa finta di prendere l’etica in considerazione ma lo fa riducendola a semplice incentivo.  Non riesce a pensare che in termini di incentivi.
Chi svaluta il ruolo dell’etica dice che muta lentamente, che il suo gradualismo non dà conto dei fenomeni ma li segue pedestremente.
Sbagliato. L’etica che giudicava le donne al lavoro è cambiata repentinamente nel corso degli anni 60 e 70. L’etica presso i romani alla fine del primo secolo è cambiata rapidamente passando dai valori repubblicani e quelli imperiali. L’etica della cristianità tedesca agli inizi del XVI secolo si è trasfusa rapidamente dal rilassato regime delle indulgenze a quello rigoroso del protestantesimo. L’etica con cui gli inglesi giudicavano il commercio e le innovazioni tecnologiche alla fine del 700 è passata dal disprezzo all’ammirazione, e non lo ha fatto gradualmente ma pressoché di colpo.
Un cambio molto più rapido di quello istituzionale!
I tribunali, nel frattempo, hanno continuato a “giudicare” secondo le prolisse procedure precedenti. Il diritto di proprietà non si smuoveva. La legge penale era ancora fortemente sbilanciata contro i poveri. Eppure, il giudizio e la retorica sugli innovatori è cambiata. È bastato quello per realizzare una rivoluzione.
L’etica può svoltare in un attimo. Considera in Italia le vicende di mafia nei primi anni 90 e la sollevazione di popolo a favore di certi giudici: una svolta inattesa quanto repentina che ha cambiato le carte in tavola dopo decenni di omertà. È stato un cambio ideologico, non istituzionale.
L’istituzionalista e l’economista di fronte al mistero delle idee e dell’ideologia restano spiazzati e si oppongono, di solito tendono a ridurre l’idea a puro stimolo biologico. Ci si appella alle scienze neurobiologiche. Tutto deve essere inquadrato come “meccanismo”, l’ umano va espulso.
Ma per comprendere l’azione rivoluzionaria delle idee pesa di più l’approfondimento umanistico che discende dall’abbracciare 2000 anni di storia che l’approfondimento scientifico sul cervello partito negli anni 80.
Chi trascura la cultura e si concentra sulle regole del gioco, non comprende che le regole del gioco sono sempre in discussione.
Quando, tanto per dire, l’economista pensa alla teoria della “broken window” elaborata nel mondo della criminologia da Kelling e Wilson la pensa come mero incentivo e non come “conversazione”, ovvero come messaggio culturale del tipo: “questo posto è carino e ben curato perché chi abita qui trova che valga la pena di averne cura, vuoi unirti a questa comunità civile? Vuoi partecipare anche tu?”. No, l’unica cosa a cui pensa l’economista è la logica law&order: dove c’è ordine, c’è nascosta la pula da qualche parte.
L’economia trascura il linguaggio. L’economia è una scienza prelinguistica. In Marx come in Samuelson la valenza del linguaggio è azzerata.
Ma per avere un obbligazione bisogna sentirsi in obbligo, bisogna riconoscere un dovere, bisogna saperselo rappresentare, bisogna avere le parole giuste per rappresentarselo.
Agli economisti piace molto la teoria dei giochi, che come premessa ha il “taci e gioca”. In quel taci c’è l’azzeramento del linguaggio: tutti giocano capendo il gioco allo stesso modo, lo si dà per scontato. Il gioco, in un certo senso, si oppone al linguaggio.
Se ti prometto di fare qualcosa tu reagirai a seconda di cosa intendi con il termine “promessa”. Io che ricevo la tua promessa farò altrettanto. Dentro questa presunta comprensione scatta un corto circuito che sfugge all’economista ma non è affatto irrilevante.
L’economista dà per scontata l’ inequivocabilità del linguaggio quando l’equivoco è dietro l’angolo ovunque.
Pensiamo al significato della parola “onestà” presso la nostra cultura e presso quella africana del popolo che intendiamo aiutare. Spesso c’è un abisso. Pensiamo poi alla parola “onore”, l’abisso si approfondisce. Con queste premesse aiutare sul serio dando delle indicazioni diventa difficile.
Chiamare una persona disonesta nella società aristocratica implica un duello, per esempio. Chiamare una persona disonesta nella società borghese implica scherno e derisione. I significati cambiano a seconda della cultura e l’equivoco è sempre in agguato.
Nella cultura aristocratica l’innovazione non era testata dal mercato. Inventare una nuova macchina da guerra era di per sè ammirevole anche se la profittabilità dell’innovazione restava dubbia. Il significato del termine muterà radicalmente.
Quando possiamo dire che esiste un accordo tra due parti? Che un patto è stato stipulato? Per l’economista non esistono problemi di questo genere, per lui tutto è scontato: c’è un accordo! Eccolo lì! Per lui un patto è un “fatto bruto”. Ma nella realtà le cose sono assai diverse. La società è tenuta insieme da convenzioni che ci fanno capire quando un accordo esiste, quando un patto è siglato. Queste convenzioni sono sempre sotto pressione, sono sempre in discussione, sono sempre soggette a slittamento.
Come esprimere una preferenza? Anche questo problema affonda le sue radici nel linguaggio. Bart Wilson è uno studioso che ha molto da dire in merito, e non si tratta di banalità. Noi siamo sicuri di ciò che sta nel nostro cuore ma come possiamo esserlo di ciò che sta tra noi e l’altro? Nella decifrazione di questa intercapedine la cultura gioca un ruolo centrale. Nel generare cooperazione, per esempio, la cultura è decisiva. E che cos’è il capitalismo se non cooperazione volontaria?
E’ l’approccio umanistico a gettare luce sulle istituzioni, non viceversa.
L’economista vede l’istituzione come un vincolo esterno, non come qualcosa sempre in discussione che la cultura crea e negozia di continuo. Le cose non possono essere ridotte a “preferenze+vincolo di bilancio”. Troppo facile.
Poi ci chiediamo perché in Africa certe istituzioni palesemente vantaggiose non allignano. Abbiamo smesso di capire cos’è l’uomo, se ci impantaniamo non è sorprendente!
La scienza economica, per capire, ha bisogno di più “significati” e di meno “regole del gioco”!
politicaa

venerdì 6 ottobre 2017

11-12 Genesi del radical chic


Genesi del radical chic


Il radical chic vive nel nostro mondo, si comporta come noi, viaggia quanto noi e consuma anche più di noi.
Ma cosa lo distingue da noi – erre moscia a parte?
Il senso di colpa. Lui, diversamente da noi, fa tutto struggendosi nel senso di colpa.
Il suo mondo è informato alla “tirannia della penitenza”.
Fa suo con entusiasmo il motto di Jules Michelet: “ho bevuto troppo sangue nero dei morti”.
La vergogna permea la sua visione del mondo, vergogna di se stessi, vergogna di essere felice, di amare e di creare. È necessario sentirsi colpevoli. Presidia giorno e notte il “confessionale laico”, il peggiore di tutti.
Se il disprezzo verso di sé è pari a 10, il disprezzo verso chi non si disprezza è pari a 100.
Le nazioni occidentali sono le prime ad abolire la schiavitù? Siano anche le sole da mettere sotto accusa, siano anche le uniche a “riparare”! La passione del radical chic è quella di imputare i crimini solo a chi se ne è già pentito.
La sua è una denuncia meccanica dell’occidente. Plaude a una rivoluzione fondamentalista o a un regime illiberale, si esalta davanti alla bellezza del terrorismo o sostiene un gruppo di guerriglieri solo perché contestano la logica imperialistadell’occidente.
Indulgenza per le dittature straniere, intransigenza verso le nostre democrazie.
È portatore instancabile di un nuovo conformismo fondato sul dovere della penitenza  e sulla macerazione nella vergogna.
Ricorda certi atei che bestemmiano Dio per meglio resuscitarlo.
La colpevolezza gli piace. Si barrica dietro la facciata maledetta del criminale perpetuo per mantenere più facilmente le distanze dai problemi reali. C’è qualcosa di frivolo nel suo desiderio di fustigazione.
I crimini commessi in passato ci intimano di tenere la bocca chiusa. Nel riserbo e nella neutralità troveremo la nostra redenzione. L’occidente buono è quello della vecchia Europa che si rintana e tace, quello cattivo è quello degli Stati Uniti che intervengano e si immischiano in ogni cosa.
Il mondo intero ci odia, e noi ce lo meritiamo. La storia, del resto, è costellata dai cadaveri che abbiamo disseminato ovunque.
Pensa senza sosta a quel “mostruoso e incomprensibile cataclisma” che fu, per una tanto larga è innocente frazione dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale.
È probabile che l’occidente abbia potuto produrre deicomputer soltanto perché da qualche parte nel mondo la gente moriva di fame e di desideri.
I suoi ideali passati sono falliti, ed è proprio il fallimento di queste utopie concrete a spiegare il risorgere di un pensiero all’improvviso liberato dalla necessità di confrontarsi con il reale.
Ogni passo falso dell’Occidente… se l’è voluto. Il terrorismo ci colpisce? È perché siamo colpevoli.
Così come esistono predicatori di odio nel l’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie. I terroristi ci colpiscono ma tutti noi siamo terroristi potenziali. Tutto questo sangue in fondo è solo un regolamento di conti tra stati canaglia.
Sulle sue insegne campeggia il Salmo XVIII: “O Dio, assolvimi dalle colpe che ignoro e perdonami quelle altrui”. Ha perso ogni speranza nel paradiso ma si aggrappa alla speranza della dannazione sulla terra.
Il suo ipercriticismo si tramuta in odio di sé e lascia alle proprie spalle solo rovine. Dal rifiuto dei dogmi nasce il dogma del tutto nuovo della demolizione.
Un orgoglio tutto particolare lo invade, l’orgoglio di chi si riconosce peggiore degli altri. Si sente rappresentante unico dell’occidente predatore che si cosparge il capo di cenere. Detesta l’occidente non tanto per le sue colpe reali ma piuttosto per il suo tentativo di emendarle
Un tipo del genere, naturalmente, anche se “inventato” oltre oceano, prolifera  in Europa: non ci si dimentichi mai che l’Europa contemporanea non è nata, come gli Stati Uniti, da un giuramento collettivo che asserisce che tutto è possibile, è nata dalla stanchezza delle ecatombi, da una coscienza infelice e insicura.
Per lui la storia, o meglio la storia che ci riguarda, è un cesso intasato. Continuiamo a tirare l’acqua, ma la merda torna sempre a galla.
***
Ecco, capire il radical chic significa capire l’origine di questo senso di colpa.
Liquidare il radical chic significa liquidare il suo senso di colpa.
***
Mentre voi da ragazzini voi giocavate a pallone al parchetto, lui, il futuro radical chic,  leggeva accanitamente  Marx, intendo il Marx storico.
Si è fatto raccontare la storia del mondo moderno da Marx. Non lo ha solo letto, lo ha assimilato, capito e condiviso.
Ha capito magari anche – nei casi più illuminati – che Marx è superato come filosofo, che è irrecuperabile come economista, che è problematico come sociologo. Ma come storico no, come storico regge ancora benissimo. Come storico guai a chi lo tocca.
Queste letture sono alla base di alcuni pregiudizi duri a morire. Esempio, per lui dominio e sfruttamento sono la stessa cosa, non si discute neanche per un attimo.
Ma soprattutto ha imparato a figurarsi la ricchezza quale una casa costruita con i mattoni. Si mette un mattone sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di mattoni, et voilà, ecco che si è creata della ricchezza. Si mette un euro sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di euro e si è ricchi.
Noi occidentali saremmo ricchi perché il nostro mucchio di euro è più alto di quello africano. Tiè.
Per lui il capitalismo = accumulazione.
Quindi: 1) noi siamo ricchi perché capitalisti, 2) il capitalismo è basato sull’ accumulazione 3) l’accumulazione è indebita, 4) il nostro benessere è indebito.
L’errore fondamentale sta in 2), tutto il resto come come una fila di birilli.
Oggi tutti noi accettiamo e utilizziamo la parola “capitalismo” senza comprendere che questo termine ha natura denigratoria, che è stato coniato apposta per insinuare un senso di colpa.
Dovremmo sostituirlo con il termine più rigoroso di “innovismo” che descrive meglio il nostro sistema, ovvero un sistema in cui la ricchezza emerge da un “cambiamento testato sul mercato”.
Il sistema fuoriuscito dalla rivoluzione industriale – che ci elargisce la ricchezza di cui il radical chic si vergogna – non puo’ essere visto come caratterizzato dai commerci. I commerci sono sempre stati fra noi, c’erano nell’  America Lattina del 1800 e non erano certo sconosciuti nella Cina e nella Mesopotamia del 1800 avanti Cristo, ma se vogliamo ve n’è traccia anche 80000 anni prima della nascita di Cristo, nell’ Africa culla dell’umanità. I commerci affiancano l’uomo da sempre.
Weber e Braudel sono colpevoli di aver ingenerato l’equivoco per cui capitalismo=commercio.
La nostra ricchezza non deriva dai commerci e quindi neanche dallo sfruttamento commerciale di talune nazioni, il radical chic puo’ tranquillizzarsi.
Il capitalismo moderno diventa una novità unica nella storia dell’uomo solo se considerato come “innovismo”, ovvero come sistema che mette al suo centro l’innovazione e la distruzione creativa che l’innovazione comporta.
Altra presunta esclusiva del capitalismo moderno: la produzione su vasta scala, la grande impresa “a catena”. Tutto era già presente nell’antica Cina (lavorazione della seta) e nell’antica Roma (produzione dei concimi di pesce). E mi fermo qui, l’ipotesi non merita nemmeno di essere approfondita.
Quando capiamo che l’accumulazione di capitale era già tra noi dall’età della pietra mandiamo a ramengo tutta la narrazione di Marx a cui si è abbevera da sempre il radical chic
L’equivoco alligna anche tra gli economisti dello sviluppo contemporanei, come dice bene William Easterly, i quali sostengono che il terzo mondo ha bisogno di accumulare risorse prima di creare ricchezza.
Il capitalismo è innovazione+mercato. Non capirlo manda fuori strada.
L’innovazione da sola non basta poiché anche l’innovazione più geniale può risolversi in un puro spreco. Anzi, il cambiamento è un costo di per sé e se questo costo non è compensato va subito mollato. Il test di mercato è il filtro di selezione naturale del sistema: la gente è disposta a pagare per cambiare?
Nelle società capitalistiche non è il capitale a dominare ma le idee.
Mark Zuckerberg, Henry Ford, Andrew Carnegie dominano e hanno dominato senza che all’origine del loro dominio vi sia stato alcun accumulo di capitale. C’era solo un’idea.
Al centro del capitalismo sta l’imprenditore, con le sue idee e la sua disponibilità ad assumere dei rischi.
E’ lui l’eroe. E’ all’eroismo del borghese che dobbiamo il nostro benessere. Ma il radical chic il borghese lo odia.
Chiamare questo sistema “capitalismo” significa mettere al centro il capitale, il che è sommamente inaccurato. Al centro va messa l’intelligenza del borghese.
La parola capitalismo emerge nel tardo XIX secolo nella narrazione della sinistra europea, rinvia ad un mitologico indebito accumulo di capitale su cui si fondano tutti i nostri privilegi.
Secondo Marx la storia della rivoluzione industriale inizia lentissimamente con un accumulo che parte nel XVI secolo e che si è via via ingigantito fino a fruttificare di colpo con la rivoluzione industriale.
Le radici della nostra prosperità starebbero fisse in questo retroterra fatto di soprusi, sfruttamenti e appropriazioni indebite.
Gli storici che hanno rinvigorito e tramandato questa “fiaba” sono molti e a volte insigni, esempio: R.H. Tawney, Maurice Dobb e Chrisopher Hill.
Secondo costoro i primi capitalisti usavano il loro potere per opprimere i lavoratori, per schiacciare i salari riducendo alla fame la classe operaia. E anche per realizzare una “competizione sfrenata”.
Ma la competizione è un tratto tipico di tutte le società commerciali, per cosa erano nate le gilde medievali? Per fronteggiare una “competizione sfrenata” che non consentiva di sfruttare il consumatore. Pensare alla competizione come ad una peculiarità della rivoluzione industriale è un abbaglio.
Altro mito marxista: i salari da fame. La domanda è l’offerta determinavano i salari, non l’ avidità del capitalista. I lavoratori della Rivoluzione Industriale non hanno mai visto i loro salari abbassarsi e non si trattava di salari da fame, tanto è vero che accorrevano a frotte dalle campagne, sebbene le condizioni urbane fossero al limite del disumano, basterebbe pensare all’acqua potabile.
Al contrario, i salari sono sempre più aumentati nel tempo, così come il lavoro minorile è diminuito. E questo ben prima che si affermassero i sindacati o qualsiasi tipo di legislazione sociale in tal senso.
Gli errori del marxismo e dei suoi epigoni derivano dall’ aver dato troppo peso alla narrazione di brillanti dilettanti come per esempio Arnold Toynbee, una narrazione ripresa poi dai socialisti Fabiani e infine ricevuta dai marxisti sulla base di un telegrafo senza fili nel quale la mitologia è nel frattempo proliferata. Una storiografia amatoriale e senza basi solide che ha giocato un brutto tiro a molti storici, e di cui oggi paga le spese il radical chic. E’ un po’ come studiare la Gran Bretagna del XIX secolo leggendo solo Dickens: la storia ridotta a romanzo d’appendice.
Veronica Wedgwood racconta bene come la versione fiabesca di una rivoluzione industriale fatta da accumulatori che poi sfruttavano il loro potere si diffuse artatamente presso l’intellighenzia europea.
Da allora l’ anticapitalismo di certi accademici è prassi consolidata. Ancora recentemente ricordiamo bene la figura di Milton Friedman associata a quella di Pinochet, oppure quella di James Buchanan associata ai segregazionisti dell’Alabama. E a porre un freno non giova certa sciagurata retorica neo-liberista di stampo machiavellico-benthamita per la quale “greed is good”.
***
L’ accumulo di capitale (senza innovazione) non spiega proprio nulla, d’altronde esiste da sempre nella storia, ed esiste non accompagnato da cio’ che vogliamo spiegare.
Persino Keynes – altro padre nobile dei radical chic -ammette che il rendimento dei capitali tende a zero in mancanza di rischi legati all’innovazione.
È stata una forza esterna a generare i grandi rendimenti del risparmio nei periodi successivi alla rivoluzione industriale, non quell’automatismo misterioso a cui pensano i “teorici del capitale”.
Ma c’è di più, il capitale cumulato a prescindere tende adeprezzarsi. È soggetto a una specie di entropia. Possiamo chiamarla obsolescenza.
Vele persino per un capitale prezioso come quello umano: lo sa bene il cinquantenne che si ritrova nell’epoca dei nuovi media con un capitale di conoscenze azzerato e da riconvertire.
Solo Dio è la capacità di innovare sono esenti da obsolescenza.
La capacità di concentrare e accumulare è sempre stata una specialità cinese. Non dobbiamo mai dimenticarci che in era premoderna quasi metà della popolazione urbana viveva in Cina. Come mai allora la Cina non ha mai fatto registrare ungrande balzo che abbia consentito la rivoluzione industriale?
Di fronte a tutti questi inciampi la narrazione radical chic rispolvera vecchie nozioni come quella di avidità: dal 1848 una singolare avidità si è impossessata dell’imprenditore europeo. Qualcosa di mai visto prima. La testa dell’uomo è cambiata.
Il primo a negare l’ipotesi e Max Weber: “… la nozione per cui la nostra era razionalistica e capitalistica sia caratterizzata da interessi economici superiori a quelli di altre epoche storiche passate è infantile”. L’istinto egoistico non si può negare ma è sempre esistito è sempre esisterà.
La chiave con cui spiegare il tesoro su cui sediamo è un’altra: un cluster di idee per il miglioramento da far testare al mercato. Grazie a questa formula siamo volati ovunque.
Nella società europea a un certo punto le idee hanno cominciato a fare sesso tra loro, come dice in modo eloquente Matt Ridley.
Il produttore di idee – non solo veniva magnificato dalla retorica dell’epoca – ma aveva accesso a una rete di comunicazione che lo connetteva con i suoi “colleghi”.
Questo “momento” singolare si realizzò intorno al 1800. Sta qui la soglia che cerchiamo.
Cosa è scattato? Facciamo un esempio illuminante: l’ ascia è un attrezzo rimasto fisso per un milione di anni. Confrontatela con il mouse del vostro computer, una roba che cambia di anno in anno. E’ l’immagine migliore per capire cosa differenzia l’eldorado in cui siamo entrati dalle epoche precedenti.
Chi usa ancora una macchina da scrivere? Chi guarda la TV in bianco e nero? Che fine hanno fatto le competenze del centralinista? E che fine hanno fatto le lauree in latino?
Tutto fagocitato dalla grande distruzione creativa, la nostra unica e vera benefattrice.
Non le colonie, non lo sfruttamento dell’operaio, non il cumulo avido di capitale, ma la tremenda distruzione creativa operata da idee valorizzate in una società borghese. A questo dobbiamo la nostra ricchezza, e di questo non dobbiamo nutrire alcun senso di colpa, semmai un senso di legittimo orgoglio.
Gli economisti sono i primi colpevoli se il radical chic è tra noi e ci disturba con la sua lagna. Gli economisti hanno sempre avuto pochissimo da dire sulle cause dell’innovazione. C’è tra loro una clamorosa mancanza di curiosità sul fenomeno cardine nella ricchezza delle nazioni. C’è nel loro lavoro una cocciutaggine inspiegabile nel forzare la storia in quel letto di procuste che è la teoria del capitale. Forse perché l’innovazione disturba, scompagina, mette disordine. Nella realtà come nei loro modelli asettici.
Cosa opporre ai radical chic? innanzitutto una nuova retorica. Parliamo di “Era dell’Innovazione” e non più di “Era del Capitalismo”.
John Rockefeller o Bill Gates sono i protagonisti della nostra era e non hanno mai accumulato un dollaro, hanno sempre accumulato idee.
O perlomeno, non hanno accumulato più di quanto non facessero già in Mesopotamia 2000 anni prima di Cristo, stando ai cuneiformi incisi nell’argilla e decifrati dagli archeologi. Oppure i greci ad Atene 500 anni prima di cristo.
Non hanno commerciato più di quanto non facessero già nel Medio Oriente con le conchiglie e le collane 6000 anni prima di Cristo, oppure gli aborigeni australiani per tutta la loro storia.
Il capitalismo è antico, il capitalismo ci accompagna sin dall’alba della civiltà. Quel che invece conosciamo solo noi è l’idea di innovazione sistematica e di distruzione creativa.
Gli altissimi tassi di risparmio dell’Italia nel 19esimo secolo non hanno mai portato un vero sviluppo. Quelli inglesi della stessa epoca, incomparabilmente più bassi, hanno creato un miracolo imitato da tutti. Di fronte a evidenze come queste chi puo’ dire ancora che il tasso dei risparmi – e quindi l’accumulo di capitale – sia la variabile chiave di tutta questa storia?
Non l’accumulo ma lo sviluppo tecnologico dobbiamo ringraziare. L’opera di Joel Mokyr è tra le più complete nel tracciare questa chiara distinzione.
Se non vi basta guardate all’America Latina e agli Stati Uniti, una terra depressa e l’altra sviluppata. Dove tracciare una distinzione significativa? Da una parte solo gerarchia e immobilità sociale, dall’altra parte parità di diritti ed esaltazione dell’uomo comune. A contare sono le idee, non il proprietario del cervello che le produce.
Laddove si sviluppa un senso di rispetto per l’uomo comune, che poi è il borghese, non c’è nemmeno sfruttamento neanche dell’operaio: la classe operaia statunitense è ferocemente antisocialista. Per capire fino a che punto vale la pena di consultare il lavoro di David Ramsey Steel.
Ma il radical chic è in buona compagnia nel suo disgusto,  il borghese trafficone è da sempre disprezzato anche da Chiesa e Nobiltà. E c’è chi va oltre dopo aver notato questa comunanza, ovvero ipotizza che il disprezzo del radical chic verso il Borghese sia solo una modalità latente per accreditarsi verso Nobiltà e alto Clero. Insomma, una delle tante forme assunte dall’eterno complesso d’inferiorità verso la classe dominante.
radical